Inferni e Letteratura: Dante in Primo Levi

Per quante strade l’attualità di Dante, al di là delle ricorrenze, ci torna spesso davanti! Perfino nei campi di concentramento…

E’ sato così nell’intenso incontro con Martina Mengoni, di UniFerrara e certamente una delle più attente studiose di Primo Levi, che ora sta collaborando anche all’importante progetto digitale sui carteggi dello scrittore, finora pressochè inaccessibili.

Perchè Levi negli incontri di “Parma per Dante”? Ovviamente il legame è con “Se questo è un uomo”, dove proprio Dante con il canto di Ulisse diventa il tema per una lezione di lingua ad un compagno di prigionia, ma al contempo diventa anche molto di più.

E’ un tema sul quale si sono registrati già tanti contributi, come ha spèiegato la relatrice. Anche perchè, in effetti, “la guida a Auschwitz più dettagliata è proprio l’Inferno di Dante”. E’ un inferno già scritto, e certo non è un caso che Dante sia presente in tante testimonianze anche non letterarie dei deportati. ” Tutti hanno usato Dante per spiegare la propria incapacità espressiva: il campo apparve la realizzazione concreta dell’esempio dantesco”.

L’analogia con Ulisse sta soprattutto nel fatto che lì Primo Levi veda “lo sforzo di sollevarsi oltre l’orizzonte desolato della prigionia”. Ma c’è anche qualcosa d’altro: Auschwitz è anche Babele di lingue, e in Dante i due prigionieri trovano una possibilità di comunicare, di fronte all’estremo del lager. E’ il cosiddetto Lagersprache, che è una lingua diversa dallo stesso tedesco e che rispecchia la situazione di quell’universo concentrazionario e multietnico. E, grazie a Dante, quella che nasce come comunicazione del momento sarà allo stesso tempo lingua per i lettori del futuro, per la necessaria memoria di ciò che accadde.

E sarà interessante approfondire ulteriormente lo studio delle varie edizioni: se in un caso Levi inizia con il “noi” di un gruppo di amici deportati, nella seconda edizione questo arriva solo ” dopo un lungo ritratto incipitario giocato sulla diminuzione di sé stesso”.

Mettersi “per l’alto mare aperto”, come per Ulisse, sembra quindi anche qui un simbolo della grandezza dell’uomo, che nel caso dei deportati si traduce nel mettersi “in relazione con la dignità perduta”.

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In apertura di incontro, il prof. Nicola Catelli ha anche ricordato il prossimo e conclusivo appuntamento con il ciclo “Parma per Dante”:

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(Da spettatore e cronista dell’incontro, aggiungo uno spunto che potrebbe magari interessare qualche studente in cerca di tesi. Nelle mie ricerche – che sono di carattere giornalistico, va sottolineato – ho incontrato proprio in questi giorni altre due “applicazioni” dantesche, non del tutto dissimili da quella di Levi. Nel suo Diario clandestino – scritto fra il 1943 e il 1945 – anche Giovannino Guareschi affida a parole quasi dantesche ciò che lui e i compagni di prigionia hanno portato a casa dal lager riuscendo a non odiare i loro carcerieri: “Non abbiamo vissuto come bruti” (che riecheggia proprio, anche in questo caso, il canto di Ulisse). E ai gironi danteschi si affidò Pier Paolo Pasolini, nel suo ultimo drammatico film Salò o le 120 giornate di Sodoma, trasferendo quella vicenda appunto ai tempi della repubblica nazifascista dell’Italia del Nord. Possono essere spunti slegati, ma potrebbero essere anche la traccia per qualche lavoro di ricerca, ovviamente da porre al vaglio dei colleghi di Letteratura). (gabriele balestrazzi)

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