La donna che scriveva racconti e le anime di Lucia Berlin

« Per quello che possa ricordare, nella vita ho sempre fatto una pessima prima impressione», per citare una delle tante protagoniste a cui Lucia Berlin ha donato la propria voce. Non sarà forse questo il motivo che

ce l’ha fatta scoprire troppo tardi?

La donna che scriveva racconti (traduzione di Federica Aceto, Bollati Boringhieri), pubblicato per la prima volta in Italia nel 2016 e riedizione di A manual for Cleaning Women del 1977 è un’antologia di 43 storie brevi. Una serie di fotografie in cui la protagonista è la stessa narratrice o vari personaggi diversissimi tra di loro ma accomunati da una fragilità che da sempre caratterizza chi si ritrova – per scelta o per sventura – a vivere ai margini. «Scrivo solo ciò che mi sembra vero. Emotivamente vero. Quando c’è la verità emotiva, il ritmo viene di conseguenza, e anche una bellezza dell’immagine, direi, perché vedi le cose con chiarezza. Per la semplicità di quello che vedi.» dichiarò Lucia Berlin in una delle sue ultime interviste (rilasciata nel 1996 a due suoi specializzandi e pubblicata sul Literary hub nel 2016, ndr).

Purtroppo, con l’edizione italiana abbiamo perso alcuni approfondimenti capaci di cogliere la complessità che mettere mano a un’opera della Berlin comporta; manca di presentazione, prefazione o postfazione. L’errore grave è stato il cambio del titolo, chiaramente esito di una strategia di marketing. Il doppio senso del titolo dell’edizione originale – che è anche quello di uno dei racconti chiave – significa manuale per donne delle pulizie o anche manuale per pulire donne. E le pagine sono piene di donne che si ripuliscono, donne che vengono ripulite e personaggi che avanzano come fantasmi, intrappolati negli angoli più oscuri, dove solo la finzione narrativa può aiutare a risalire. E poi ci sono loro, gli uomini: operai, mariti carcerati, drogati, violenti, assenti, conoscenze laterali, di passaggio.

I racconti scorrono, uno dietro l’altro, apparentemente scollegati tra di loro ma uniti dalla crudezza delle situazioni avvilenti e degradanti che incontriamo tra le pagine. La sensazione che l’autrice conosca bene quello che racconta è il tratto distintivo della raccolta. «Io esagero molto, e confondo la finzione con la realtà, ma non dico mai bugie» afferma una delle protagoniste della raccolta di racconti.

Il lettore può accostarsi all’opera senza saperne nulla ma sentirà costruire dentro di sé la consapevolezza che dietro l’artificio c’è la verità più pulita. Al nucleo delle cose ci si arriva solo se certi mondi sono stati abitati. La materia dei suoi racconti è data da una vita picaresca: una vita costituita da trentatré traslochi, tre divorzi, quattro figli, l’alcolismo, disintossicazioni, lavori saltuari (è stata donna delle pulizie, centralinista, infermiera e insegnante), una grave scogliosi, rapporti disfunzionali, un padre ingegnere minerario che per lavoro la obbliga a spostarsi di continuo, una madre alcolista e cinica, una vita dove la famiglia non è un posto dove ritornare ma dal quale scappare. Una vita ridotta in mille pezzi dove ci si limita solo a fare il minore dei danni possibili, pregna di dolore, mi viene quasi da dire, tracciata su una linea geografica che attraversa gli Stati Uniti, da nord a sud proseguendo verso il Messico e il Cile raccontati nelle loro periferie generatrici di profonde solitudini, violenze domestiche e fenomeni razziali. Il Texas del «io non lavoro per i negri.», per esempio, le comunità minerarie in Idaho, Kentucky, Montana simbolo dell’avidità dell’uomo o la vita privilegiata di certi benestanti in Cile. Vengono toccati gli aspetti più scomodi della realtà americana quali le brutalità della polizia e del sistema carcerario, gli abusi sui minori sul corpo delle bambine, la repressione degli esponenti della Sinistra e l’emarginazione degli immigrati messicani. La Berlin si fa testimone e interprete, senza nessuna pretesa ideologica, di un periodo che va dagli anni ’30 del Novecento sino alla sua fine.

Nei racconti la sua scrittura compie un miracolo: anche davanti al più clamoroso dei fallimenti o alla perdita dell’ultimo briciolo di dignità, la narrazione mantiene una certa ironia o autoironia e a tratti la leggerezza si fa carico di momenti orribili, al limite della sopportazione umana. Nei suoi racconti c’è la donna in una lavanderia a gettoni totalmente sola, costretta a chiedere aiuto a sconosciuti, circondata da ambienti degradati fatti di luci al neon malfunzionanti e sedie di plastica. Ci sono bambine e bambini costretti a vivere in famiglie incapaci di prendersi cura di loro condannandoli a futuri difficili. C’è la sorella malata di cancro, il nonno violento, l’insegnante di spagnolo in una classe difficile, la prima esperienza di disintossicazione, la giovane minorenne e le cliniche di aborto illegali. C’è l’infermiera che, come in un reportage ci racconta le pene di chi lavora in pronto soccorso (non a caso la protagonista in questo racconto si chiama Lucia). Ci sono gli amori innocenti carichi di novità e curiosità, una vedova che ricomincia a vivere dopo la morte del marito, un’adolescente della middle-class invitata dalla propria insegnante ad aiutare i poveri, ci sono le solitudini di certi matrimoni, c’è la vita in carcere, la morte di un padre, poliziotti violenti e poliziotti pazienti, c’è la donna delle pulizie che si orienta e si racconta attraverso le fermate degli autobus e le bizzarrie delle signore di casa. C’è un’intera umanità incapace di domare la vita a cui l’autrice regala bellezza restituendole visibilità. Non abbiamo tutti diritto a un posto nel mondo?

Attraverso tutti questi personaggi, si crea un gioco nel lettore: cercare chi e che cosa è solo creatura narrata o anche possibile espressione dell’ autrice stessa, che a tratti pare svelarsi e a tratti nascondersi, attraverso una polifonia di punti di vista narrativi capace di unire il distacco di chi quella determinata realtà non la vive e l’occhio vigile di chi, invece, vi è completamente immerso. Ci si chiede se, la Berlin, ricombini i dati della propria esistenza e racconti a volte una sé stessa bambina, adolescente o adulta alle prese con il suo percorso di formazione, devastazione e trasformazione fatto di solitudine, dolore, dipendenza, morte e distacco dove il confine tra realtà e finzione rimane spesso indistinguibile. Lascia al lettore la volontà o meno di riconoscere lo stesso personaggio in racconti diversi, per cui cambia il nome, l’età, il periodo della vita. Ciò che è chiaro è lo straordinario talento o capacità, scegliete voi il termine corretto, di vedere le persone per quello che sono e di trasferirceli con uno stile discreto, chiaro, preciso, asciutto, essenziale.

Alcuni paragonano il suo stile a quello di Carver. Quale Carver? Il Carver di Lish o il Carver di Cattedrale? Né nel primo e né nel secondo c’è la stessa trasposizione narrativa della realtà perché i finali della Berlin non terminano mai né con cinismo ma né tantomeno con “quelle piccole cose ma buone” capaci di illuminare momenti tragici. Berlin racconta con ferocia e tenerezza, riporta sulla carta quello che vede per poter elaborarlo emotivamente prima che il mondo continui ad andare avanti e ci si dimentichi tutto. Le sue storie sono un pretesto per scandagliare tutti gli aspetti della vita umana. I personaggi vengono colti con autenticità e sincerità nel disordine delle loro vite e posti al centro della scena. Tutto il resto sta ai margini. Margini fatti di situazioni ordinarie, luoghi apparentemente privi di interesse narrativo ma che con rigore l’autrice è capace di restituirci facendoci dimenticare cosa stiamo facendo o chi siamo. Durante la lettura i racconti potranno confondersi tra di loro come i nomi e i ruoli dei loro protagonisti o terminare bruscamente.

Ci si sente come calati in un’altra dimensione, nella quale siamo consapevoli che non è la nostra, ma siamo altrettanto disposti a viverla pienamente e completamente lucidi. Le storie ci arrivano con potenza come certe folate di vento. Le viviamo, non perdiamo un minimo dettaglio. Sentiamo la fatica di certe vite e tutte le scie di incomprensioni che si portano appresso, la sofferenza, il disincanto, l’arrendevolezza, la solitudine, gli inciampi, le risalite e, ne usciamo da questi paragrafi brevi e sottili ripuliti anche noi. Quali sono i dolori e le colpe di cui ci vogliamo disfare? Qual è quel vuoto che minaccia le nostre anime? Dove troviamo le nostre risposte? Per citare le splendide parole della protagonista di “Randagi”: «Ma poi qualche volta ti capita, per un secondo, di essere toccato dalla grazia, dalla certezza che invece ci sia qualcosa che conta, conta davvero». Conoscete una più alta celebrazione della vita? Se la scrittura è il posto in cui Lucia Berlin ha trovato il suo rifugio non abbiate fretta ad abbandonarlo.

Sara Milani

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