L’arte (di Fatica) di tradurre Tolkien

Andrea Sello

Gli incontri sullo scrittore inglese John Ronald Reuel Tolkien all’università sono diventati ormai una sorta di appuntamento fisso tra le iniziative della Terza Missione dell’Ateneo di Parma, che ha il pregio, come ricordato da Elisa Sicuri, vicepresidente della Associazione Italiana Studi Tolkieniani (AIST), di essere una fra le università d’Italia dove si parla dell’autore non semplicemente a livello di appassionati, ma anche da un punto di vista filologico. Basti un solo esempio: la giornata del 1° dicembre 2017 su “Tolkien linguista e glottopoieta”, di cui alcuni contributi sono confluiti in un bel volume, dal titolo “Creating Worlds through Languages. Tolkien between Philology and Conlanging”, appena uscito per i tipi della parmigiana Athenaeum.

L’incontro di quest’anno, ospitato nell’Aula Magna della Sede centrale dell’Università, si è concentrato sulla nuova epocale ritraduzione italiana de Il Signore degli Anelli del traduttore d’eccellenza Ottavio Fatica, il quale ha accolto l’invito per venire a parlare di Tolkien e dell’arte del tradurre. La sua disponibilità è stata preziosa e l’occasione unica; se si esclude, infatti, l’intervento al Salone del Libro di Torino, questa è stata la sua prima uscita pubblica dopo l’arrivo nelle librerie dell’ultima versione de La Compagnia dell’Anello.

Dopo i saluti, in apertura d’evento, del Prorettore vicario Paolo Martelli e gli interventi introduttivi dei moderatori Elisa Sicuri, Davide Astori e Michela Canepari, Ottavio Fatica comincia riassumendo brevemente la genesi e il caso editoriale italiano di The Lord of the Rings, due aspetti fondamentali per essere consapevoli di come Il Signore degli Anelli è diventato ciò che è. Si potrebbe pensare che il ciclo mitologico di Tolkien abbia avuto, fin da subito, l’apprezzamento che oggi gli è attribuito. Non è così.

 Solo dopo il discreto successo de Lo Hobbit, nel 1937, viene richiesta una continuazione per le vicende della Terra di Mezzo. Così Tolkien, a seguito del rifiuto dei suoi editori di pubblicare i primi racconti mitologici sugli elfi (che confluiranno nell’immaginario de Il Silmarillion), intraprende la scrittura di una nuova storia: un lungo processo di dubbi, cambiamenti e di labor limae, testimoniato dall’epistolario dell’autore,che ha portato alla pubblicazione in tre volumi, fra il 1954 e 1955, della sua opera più famosa.

Alla fine degli anni Cinquanta questa inizia a far parlare di sé nel mondo, venendo così proposta anche in Italia. Qui, però, non viene subito apprezzata, a causa della sensibilità culturale dell’epoca, rivolta più che altro al neorealismo americano del Dopoguerra. Inizia così una tortuosa staffetta editoriale per l’epopea dell’Anello: Mondadori rifiuta di pubblicarla; Astrolabio, piccola casa editrice interessata a temi quali esoterismo e psicoanalisi, si impegna nel proporne la prima parte, ma l’esito è fallimentare e le copie vendute pochissime. Subentra, dunque, Rusconi, che ha offerto da sempre un’alternativa al saggismo di sinistra, annettendo e condannando, di fatto, il libro ad una lettura di nicchia. Con il successivo passaggio dei diritti alla Bompiani si è assistito, nel corso degli ultimi vent’anni, ad aggiustamenti periodici, revisioni per migliorare un libro che, specialmente con la trilogia cinematografica e la ‘cultura pop’, poteva contare su un pubblico numeroso.

Arrivati a questo punto, la necessità di una ritraduzione de Il Signore degli Anelli si è concretizzata: per la prima volta nella storia del nostro Paese, all’opera di Tolkien viene riservato un trattamento degno di un classico della letteratura europea. Proprio questo aveva in mente Ottavio Fatica, che nell’arco della sua illustre carriera si è cimentato nella traduzione – fra gli altri – di autori del calibro di Melville e Kipling. Ha accettato il compito di ritradurre una simile opera, per riportare Tolkien, come lui stesso afferma durante l’evento: “accanto a Conrad, Joyce, Stevenson e ai grandi autori della letteratura del Novecento”.

La sfida, in questo caso, è stata doppia: da un lato Fatica si è dovuto confrontare con un immaginario consolidato nelle menti e nei cuori di generazioni di tolkieniani, restii a lasciarsi alle spalle certi nomi o immagini (seppur imprecise o sbagliate); dall’altro ha dovuto trovare il modo di restituire al lettore italiano la ricchezza linguistica de Il Signore degli Anelli, nel quale, per esempio, il registro aulico si ammanta di sfumature di tono diverse a seconda delle situazioni e dei personaggi che lo utilizzano (altezzoso per gli elfi, ridicolo per gli hobbit). Il traduttore ha dovuto, e voluto, rendere consapevole il lettore di tutte le implicazioni che stanno dietro al virtuosismo linguistico di Tolkien, accompagnandolo dentro la mente del creatore della Terra di Mezzo. Un arduo percorso, se si pensa che persino i lettori inglesi faticano ad apprezzare appieno lo stile ostico dell’autore, come testimoniato dalla presenza di glossari, dizionari, siti, enciclopedie, e altri strumenti che cercano di far luce sull’argomento (Fatica, per esempio, cita ‘Tolkiengate’ e la sua sottosezione ‘Uncommon Words’). Un’impresa pari, forse, al portare l’Unico Anello a Mordor. E dove la strada è impervia, serve una brava guida che conosca il terreno su cui si cammina.

Nella seconda parte del suo discorso, Fatica spiega le motivazioni e le riflessioni che lo hanno portato a certe scelte traduttive, optando per soluzioni che hanno il merito di essere fedeli alla volontà dello stesso Tolkien, oltre che disposte a colmare le lacune delle precedenti edizioni. Per riportarne alcune su cui Ottavio Fatica si è confrontato con il pubblico, in piena disponibilità e collaborazione, parleremo di ‘Valforra’, ‘Quartiero’ e… il tanto discusso ‘Cavallino Inalberato’.

Fatica si è attenuto (ulteriore nota di merito per questa nuova traduzione) alle note scritte dallo stesso Tolkien, che suggeriscono in molti casi dove l’attenzione del traduttore dovrebbe farsi più acuta, per rendere al meglio il senso originale dei nomi. Come nel caso di ‘Rivendell’, la famosa dimora elfica. Tolkien scrive chiaramente come il suo toponimo, in elfico Imladris, abbia in sé l’idea di ‘imlad’, ovvero ‘valle’, e ‘ris’, ovvero ‘spaccatura’. A differenza della precedente traduzione ‘Gran Burrone’, Fatica riesce a non perdere nessuno dei due significati con ‘Valforra’. Una critica diffusa mossa a questa nuova nomenclatura, considera il nome evocativo di qualche valle di montagna del Trentino. Questo non è necessariamente un difetto, quanto piuttosto un valore aggiunto. Anche Tolkien aveva in mente, per lo meno nel nome, una località nel Kent inglese, denominata appunto ‘Rivendell’. 

La volontà di Tolkien, in gran parte, era quella di recuperare una forma di letteratura del passato, la narrazione mitologica. Fa questo non soltanto nelle suggestioni letterarie cavalleresche, ma anche nell’utilizzo della lingua. Lo si percepisce nella scelta di parole arcaiche, dai significati meno immediati. Ne è un esempio ‘Farthings’.  Come ricorda Fatica ‘’Farthings’ indica ‘un quarto di una parte’. Tolkien stesso è convinto che, all’orecchio inglese del Novecento, questa parola di retaggio medievale non può che suonare comica (tratto distintivo dei simpatici ma goffi Hobbit). Da questa riflessione l’idea del traduttore di proporre ‘Quartiero’, una soluzione che risulta suggestiva per il lettore italiano, oltre ad essere chiaramente più corretta nel significato del precedente ‘decumano’.

Infine, ecco una scelta molto discussa, fra gli appassionati e i nostalgici, di tradurre l’insegna del ‘Puledro Impennato’ (in originale Prancing Pony) come ‘Cavallino Inalberato’. In questo caso Fatica richiama il linguaggio dell’araldica, assolutamente appropriato per descrivere l’emblema in questione, secondo il quale ‘rampanti’ sono solamente le belve feroci quali tigri o leoni, mentre ‘impennato’, etimologicamente, significa ‘con le penne, impiumato’. ‘Inalberato’, invece, è il termine italiano corretto per indicare la particolare posa del cavallo. Una volta comprese le motivazioni, ‘Cavallino Inalberato’ non sembrerà più un nome così fuori posto.

Fatica ricorda il modus operandi che dovrebbe essere un faro per ogni traduttore: sforzarsi di comprendere davvero il senso della parola che si ha davanti, capire come un autore ha voluto convogliare un certo messaggio e replicarlo, non mettere in discussione il testo. Uno scambio informativo, dal traduttore per arrivare alla mente del parlante, specialmente in un universo dove tanto è basato sulla potenza evocativa del linguaggio.

L’operazione di Ottavio Fatica su Il Signore degli Anelli è stata condotta in apertura al dialogo e con grande rispetto ed interesse per il testo originale. Ci si può confrontare, come afferma lo stesso traduttore, con spirito critico e costruttivo sulle scelte della nuova traduzione. Che riesca o no ad aprire gli occhi degli appassionati, una cosa è certa: quella del traduttore è un’impresa metaforicamente paragonabile a quella di Bilbo Baggins ne Lo Hobbit: è entrato nell’antro del drago Smaug, con tutti i rischi, come si suol dire, del mestiere, e davanti all’immensità dell’oro sfavillante (del testo di Tolkien) ha cercato più a fondo, con più attenzione, riportando alla luce un gioiello prezioso perduto.

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