Esperanto: la speranza di una lingua comune

Elisa Rossanino

L’esperanto nasce per essere “la prima lingua di nessuno e la seconda di tutti”, dalla volontà di Ludwik Lejzer Zamenhof, un medico polacco di origini ebraiche. “Due passi in Esperantujo” è il titolo dell’ultimo libro del professor Davide Astori, linguista dell’Università di Parma, che si interessa da oltre venti anni di esperanto. Il libro viene presentato e discusso in una serie di sei incontri di introduzione all’esperanto e alla sua cultura tenuti dal professore stesso presso la libreria ‘Athenaeum edizioni universitarie’ di borgo Cocconi.

Durante il terzo di questi incontri (i due precedenti hanno presentato, come introduzione al tema, lo spirito e le finalità più classiche ed ortodosse della provocazione culturale ed etica legata all’esperantismo, in cui si è inserito l’approfondimento che segue), il professor Astori, in un costruttivo dialogo con i partecipanti, ha cercato di chiarire la situazione che sta vivendo oggi l‘esperanto e la comunità esperantista nata attorno, senza dimenticare le sue origini e il contesto in cui è nata e si è sviluppata. Lo scopo della lingua è quello di permettere un maggiore dialogo tra i popoli, ma anche tra le religioni e quindi la costruzione di una possibile pace. La visione ideale del movimento esperantista è, infatti, quella di offrire una lingua comune al mondo e alle religioni creando un’area in cui l’incontro sia semplificato. La lingua artificiale viene sviluppata tra il 1872 e il 1887 e in quanto lingua reale soggiace a tutte le regole linguistiche, inoltre, si diffonde e si modifica secondo le comuni dinamiche sociolinguistiche. Zamenhof, come medico, la elabora cercando di capire il suo funzionamento dal punto di vista – si potrebbe azzardare – “biologico”, tenta di realizzarla in modo tale che sia funzionale anche se non perfetta.

Fin dalle sue origini la lingua ha avuto importanti ripercussioni sul piano religioso: il rapporto tra l’esperanto e le tre grandi religioni è sempre stato molto forte: ad esempio, il Corano, testo sacro dell’Islam, è stato tradotto in esperanto prima che in altre lingue; nell’ambito del Cristianesimo è stato tradotto il Messale, che permette la celebrazione della messa cattolica anche in esperanto; infine, dall’ebraico, è stato tradotto l’Antico Testamento per opera dello stesso Zamenhof.

Non fu solo Zamenhof, dopo la fine della Grande Guerra – come sottolinea, contribuendo al dibattito, una partecipante dal pubblico –  a chiedere la pace alle nazioni. Il fondatore della fede Bahà’ì, Bahà’u’llàh, dopo essersi rivelato, scrive ai governanti chiedendo una grande pace e di aiutare i popoli. Secondo Bahà’u’llàh, nel 1891, esiste già una lingua e una scrittura comune a tutti sottolineando che l’unione tra tutti gli uomini avverrà solo quando ci sarà una lingua comune.

Oltre al rapporto con le religioni, Astori ha risposto a diverse domande e riflessioni che interessano il rapporto tra l’esperanto e le minoranze linguistiche. Essendo questa una “lingua di nessuno”, ha il progetto di diventare la seconda di tutti. È stata definita, infatti, da Zamenhof “tutmonda” (quello che gli esperantisti di oggi definiscono “universala”), cioè universale. Tuttavia, si tratta di una lingua che abbraccia le differenze e non elimina quelle più piccole, anzi, per esistere deve mantenere e tutelare tutte le minoranze.

Oggi, come possibile lingua mondiale, pensiamo all’esperanto? Probabilmente no, sicuramente ci verrebbe in mente l’inglese. Le sue dinamiche e i suoi scopi sono diversi da quelli dell’inglese, è per questo che le due lingue non possono essere comparate: infatti, l’inglese cerca di affermarsi come possibile seconda lingua di tutti ma è pur sempre la prima lingua di qualcuno e ha, inoltre, interessi economici e politici che la lingua proposta da Zamenhof sicuramente non ha e non ha mai avuto.

Dopo la morte di Zamenhof, nel 1917, l’idea della lingua e la comunità di parlanti ha subìto delle profonde modificazioni che hanno portato alla progressiva evoluzione verso la possibile creazione di un “quasi-popolo”, che ha sicuramente in sé qualcosa di straordinario ma che al tempo stesso mostra aspetti contrastanti con il progetto originario.

Ci si potrebbe sicuramente chiedere se, alla luce della continua diffusione dell’inglese come lingua universale, abbia ancora senso parlare in esperanto nel XXI secolo. Sicuramente l’esperanto porta a una riflessione. Al giorno d’oggi vediamo infatti questa lingua evolversi in due diverse direzioni. Da una parte rimane il progetto culturale delle origini e di Zamenhof, e dall’altra assistiamo a una sorta di progressiva “etnicizzazione”.

Tra gli esperantisti è presente una forma di “spirito nazionale” che è caratteristica di ogni popolo e che ne determina la nascita. Con la creazione di un popolo di lingua esperanto si rischierebbe però di soffocare l’idea originaria di proporre una lingua come la seconda di tutti ma soprattutto la prima di nessuno. Il fatto che il reale si differenzi dall’ideale fa sorgere, in alcuni, la necessità di una rielaborazione delle finalità d’uso della lingua stessa.

Davide Astori spiega i possibili approcci alle lingue attraverso esempi molto chiari e facendo trasposizioni su altre lingue, ad esempio: si può essere curdi (lo sono), curdofoni (lo parlo), o curdologi (sono un esperto), lo stesso vale per l’esperanto. La lingua esperanto prevedeva la presenza di parlanti e di esperti ma non di appartenenti a un popolo. La deriva (nel senso microlinguistico, di “drift”, alla Sapir) verso cui è spinto il movimento esperantista è quella di porre, involontariamente, le basi di creazione di una possibile etnia futura: non sono più gli esponenti di un ideale ma si crea un gruppo ristretto che è soggetto alle stesse dinamiche che regolano una nazione. Gli esperantisti abbandonerebbero così il ruolo di esponenti di un ideale per favorire la creazione di un popolo, all’interno del quale c’è la regola, se non quasi l’imposizione, di parlare la lingua.

Possiamo quindi affermare che la via intrapresa oggi corra il rischio di divenire non solo divergente dall’ideale delle origini, ma – per certi versi – addirittura opposta. Gli esperantisti formando un popolo stanno in pratica creando una vera e propria etnia che, stanti così le cose, seguendo le normali leggi socio-linguistiche si andrà progressivamente chiudendo sempre più su di sé, con dinamiche anche di esclusione di chi non vuole entrare o di eliminazione di coloro che, all’interno, auspicano un possibile ritorno all’esperantismo delle origini.

Secondo il professor Astori, le minoranze sono generalmente più compatte delle lingue più diffuse, e di norma vi si entra più facilmente attraverso modalità osmotiche (quasi di cooptazione), chi ci entra per caso rischia di uscirne presto, più o meno autonomamente, se non risulta consonante con lo spirito del gruppo. Il progetto zamenhofiano sembrerebbe essere stato “tradito” nel momento in cui è nato il primo bambino madrelingua, si può capire bene la grandezza del “tradimento” se pensiamo che oggi i bambini in questa situazione sono almeno qualche centinaio.

Alla luce di questo, è ancora possibile affermare che si tratti, al giorno d’oggi, della lingua di nessuno e la possibile lingua di tutti? Probabilmente ancora sì, ma – almeno da un punto di vista più squisitamente teorico – non completamente. Si è trasformata nella lingua di pochi e al tempo stesso ogni anno aumentano i parlanti madrelingua. È per questo che il professor Astori, studioso ed esperto di esperanto, preferisce continuare a parlare e a discutere dell’utopica lingua universale ma sempre tenendo ben presente la sua natura originaria. Forte è Il rischio, per il movimento esperantista contemporaneo, di essersi spinto molto in là sulla linea della “naturalizzazione” (per usare il titolo della famosa tesi di laurea di un altro celebre esperantologo, Federico Gobbo). Tuttavia, si è fortemente consapevoli che non possa esistere una lingua senza la sua relativa cultura attorno, la lingua è l’elemento più forte che abbiamo, che ci unisce e ci fa sentire parte di un gruppo, quindi, probabilmente, è normale che si vada in questa direzione. Accanto alla forte coesione al suo interno, il “popolo esperantista” incarna e promuove, nella pratica del suo esistere, un importante dialogo interculturale interreligioso che altre lingue non sono capaci di perseguire.

A sorpresa il paese dove questa lingua è eccezionalmente diffusa è la Cina, dove esistono università in cui si insegna in esperanto.

Di esperanto si parla e si riflette da sempre, Tolstoj interessandosi del dialogo interreligioso si avvicina all’esperanto divenendone uno dei principali sostenitori. Negli anni ’30 del secolo scorso, aveva invece parlato contro gli esperantisti anche Hitler nel “Mein Kampf” identificando l’esperanto come uno degli strumenti del complotto pluto-giudeo-massonico. Ne parlarono poi anche i russi e in particolare Stalin che la definì “la lingua delle spie”. Più recentemente di esperanto ne ha parlato Umberto Eco che l’aveva definita come “la migliore lingua comune d’Europa” anche se, probabilmente, frenata dagli egoismi nazionali. Sarebbe, forse, necessario imporla dal punto di vista politico, in questo modo potrebbe forse davvero diventare la seconda lingua di tutti in due generazioni. Sicuramente sarebbe la prima lingua di un approccio umano più tollerante, ciò non è mai avvenuto forse proprio per la mancanza di una pianificazione non solo politica ma anche e soprattutto scolastica.

Sebbene nelle sue volontà iniziali la lingua esperanto poteva essere considerata come la svolta che avrebbe permesso a tutti di parlare con tutti e di essere capiti ovunque, allargando il nostro raggio d’azione e probabilmente favorendo una maggiore apertura mentale, oggi, forse si trova a un punto di stallo. L’esperanto non sembra essere esattamente quello che sarebbe dovuto essere, o forse è esattamente ciò in cui inevitabilmente, con il passare del tempo, doveva diventare.

Si ha come l’impressione che gli esperantisti non raramente rischino di estraniarsi dalla società alla quale loro stessi appartengono per giungere alla creazione di un gruppo sociale proprio. Il compito dell’esperanto non era forse quello di unire le differenze sotto un’unica egida? Non si voleva forse abbattere le separazioni per la formazione, attraverso una lingua comune, di un unico grande “popolo” anche solo al punto di vista spirituale? Non avrebbe dovuto portarci a una maggiore apertura verso il prossimo?

Cosi non sembra … almeno dalle loro stesse parole, giocate nella critica satirica di un grande autore, nella poesia “Estas mi esperantisto”:

“…Gramatikon mi ne konas

kaj gazeton ne abonas…

Librojn legu la verkisto;

estas mi esperantisto.

Mi parolas kun rapido:

“Bonan tagon! Gis revido!”

Gi suficas por ekzisto;

estas mi esperantisto….”

Trad.

“…Non conosco la grammatica

e non mi abbandono al giornale…

I libri li legga chi li scrive;

io sono un esperantista.

Dico rapidamente:

“Buon giorno! Arrivederci!”.

È sufficiente per esistere;

io sono un esperantista.”

Aspettiamo di vedere in un futuro l’evoluzione di quel progetto iniziato 130 anni fa, sognando un mondo in cui potremo parlarci in modo naturale in quell’unica lingua che sarà “la prima di nessuno” ma soprattutto la “seconda di tutti”.

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PER CHI VUOL SAPERNE DI PIU’ – Ecco i successivi incontri: il 21 novembre si parlerà di poesia catalana ed esperanto cogliendo l’occasione della presenza a Parma, all’intendo del corso di Linguistica generale di Astori, di Nicolau Dols Salas, catalanista, linguista e fonetista della Universitat de les Illes Balears, e il 27 novembre si discuterà di “Tradurre letteratura in esperanto” insieme a Federico Gobbo, interlinguista ed esperantologo dell’Università di Amsterdam (in scambio erasmus con l’università locale).

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