Ecopoetry: così romantici, così ambientalisti…

Lucia Caputo, Melania Grelloni

Difficile affermare che il genere ecopoetry si sia sviluppato solamente negli ultimi anni del secolo scorso in Inghilterra proprio perché, in quella stessa nazione, le problematiche ecologiche e la sensibilità letteraria ad esse collegate nacquero esattamente nel momento in cui la società ed il lavoro si trasformano in cultura industriale. Il cambiamento così drastico, sentito dalla popolazione e di conseguenza espresso nella letteratura, vede la nascita immediata di una sensibilità verso le varie tematiche ecologiche attraverso questo nuovo genere letterario definitosi tale solo a partire dal 1990.

Il convegno Rooting eco-criticism: British Romanticism and the Environment,tenutosi lo scorso 13 novembre presso la Casa della Musica a Parma, ha visto la partecipazione di docenti dell’università di Parma, di Siena, di Cassino, di Bologna e perfino di Vechta. Il seminario ha virato proprio sulla sensibilità ecologica degli artisti romantici inglesi, che risultano così più moderni che mai.

Il tema fondamentale della poesia romantica era la natura e la possibilità di ristabilire con essa una nuova relazione poiché i poeti avevano notato il cambiamento climatico messo in atto dalla rivoluzione industriale; nonostante ognuno di loro avesse una propria concezione della natura, tutti condividevano l’idea che essa fosse fondamentale per la vita umana e bisognava preservarla. Difatti, con lo sviluppo industriale, l’Inghilterra di fine ‘700 diventa sicuramente il Paese più inquinato di qualsiasi altro prima, situazione che fortunatamente è migliorata oggigiorno (su una classifica di 73 Paesi risulta al 61esimo posto).

Una coscienza combattiva volta alla preoccupazione verso i cambiamenti climatici e ciò che essi provocano nel mondo, è sorta negli esseri umani purtroppo abbastanza recentemente.

L’antropocene, termine che suggerisce la centralità dell’uomo coinvolto nel cambiamento strutturale, territoriale ma soprattutto climatico, è il fenomeno preso in considerazione anche dalla scrittrice romantica Mary Shelley quando questo termine non era ancora stato coniato. Tramite la lettura di The Last Man (1826) la professoressa Serena Baiesi, docente di letteratura inglese presso l’Università di Bologna, ha illustrato i punti salienti del romanzo in cui la scrittrice immagina la fine dell’umanità nel 2073 a causa di catastrofi naturali, come inondazioni e terremoti, oltre che alla peste. Di certo, il periodo nella quale ha vissuto la scrittrice romantica a livello climatico non era dei migliori. Nell’anno in cui scrisse Frankenstein, 1816, vi fu l’eruzione vulcanica del Tambora (Indonesia) che provocò “l’anno senza estate” in quanto l’enorme quantità di ceneri emesse nell’atmosfera creava difficoltà alla luce solare di penetrare negli strati atmosferici.

Il mondo stava già vivendo la cosiddetta “piccola era glaciale”, iniziata nel Medioevo e protrattasi fino al 1850, in concomitanza al “minimo di Dalton”, periodo in cui ci fu una bassa attività solare durata dal 1790 fino al 1830.

Ovviamente possiamo solo immaginare, oltre che studiare, le incredibili anomalie atmosferiche che si verificarono in quell’anno e in quelli successivi, soprattutto se pensiamo che accanto allo sviluppo industriale l’Europa fu dilaniata dal diffondersi del colera incrementato proprio dall’aumento di rifiuti di fabbriche e popolazioni sempre più crescenti. In questo scenario The Last Man è considerato dalla critica il romanzo in cui la configurazione post-apocalittica rappresenta non solo il dolore dei continui lutti che la donna (e madre) ha dovuto patire, ma anche la rappresentazione oggettiva della natura che sottolinea all’uomo quanto egli sia impotente davanti alla vera padrona della Terra.

Al centro degli studi antropoceni dunque troviamo il cambiamento climatico in quanto fenomeno legato alle scelte sbagliate dell’uomo che ci ha condotto dal passato a quest’oggi disastroso.  Per trovare soluzioni a problemi attuali perciò, c’è la necessità e l’esigenza di rimediare, per quanto possibile, a quegli errori commessi in precedenza ma anche quelli che stiamo commettendo nel presente.

Purtroppo l’uomo sembra accorgersi sempre quando è troppo tardi di ciò che sta perdendo e nel caso del cambiamento climatico la posta in gioco sembra essere troppo alta affinché l’uomo non si accorga di ciò che sta perdendo, la Terra stessa e, con essa, la vita.

Il professore Marchiò, docente di letteratura inglese presso l’università di Cassino, nel suo intervento espone quella che era l’idea generale degli scrittori romantici, ovvero che il mondo, a causa dei cambiamenti climatici, potesse finire da un momento all’altro.

L’immaginario apocalittico, difatti, non è presente solo in Mary Shelley, ma anche in scrittori come Keats e Blake. Evocativa è l’immagine di quest’ultimo poeta in cui paragona il rosso delle fiamme sprigionate dalle nuove industrie ad elementi satanici, presenze demoniache le quali intaccano la natura e l’uomo.

Fa sicuramente riflettere il fatto che molti letterati dell’Ottocento avessero già colto il problema ingente che ben presto la natura avrebbe posto all’uomo, nonostante essi stessero appena cavalcando l’onda della rivoluzione industriale, mentre oggi, nonostante gli studi scientifici, eventi climatici ancor più marcati e catastrofici, continuiamo a procrastinare soluzioni inefficaci e false politiche ambientali.

Il tempo è scaduto, se ci sia un the last man questa volta non ci è dato saperlo.

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