“Mani aperte vs Porti chiusi”: quello che le foto raccontano di un salvataggio in mare

Eleonora Di Vincenzo

“Mani aperte vs porti chiusi”. Questo lo stimolante incontro che si è svolto nel Polo Didattico di via del Prato. Il seminario, che appartiene alle Giornate della Conoscenza, ha affrontato il tema molto complesso dell’immigrazione e, nello specifico, delle operazioni di salvataggio in mare. A raccontarle è stato Stefano Bertoldi, sociologo e membro di SOS Mediterranee, organizzazione no-profit che si occupa di soccorrere in mare persone in gravissima difficoltà.

L’incontro inizia con 7 minuti di video tratti dal film “Smoke”, che attraverso il tema della fotografia, ci sprona a riflettere sulla naturale tendenza umana a sentirci affini ai problemi altrui solo quando vi riconosciamo qualcosa di nostro. “E’ quando un’immagine diventa propria che la persona prova emozioni”, spiega Bertoldi che racconta di come, nella sua lunga esperienza in mare, non riesca a capacitarsi dell’indifferenza dilagante ancora oggi tra la maggior parte delle persone davanti ad un’emergenza umanitaria come quella che stiamo vivendo. In particolare, Bertoldi attacca i media e la rappresentazione che i mezzi di comunicazione danno del fenomeno immigrazione, distorcendolo e politicizzandolo. Smentisce infatti l’esistenza del cosiddetto pull factor, ossia la credenza secondo cui i flussi migratori non diminuiscano perché ci sono navi pronte ad accorrere in caso di difficoltà in mare. In realtà, spiega Bertoldi, il salvataggio è tutto fuorchè semplice, anche a causa di leggi sempre più restrittive in materia.

Bertoldi riporta un articolo dell’”Internazionale” sul risvolto economico della detenzione dei migranti negli appositi centri. Uomini, donne e bambini, a volte con pochissimi giorni di vita, vengono da diverse zone del continente africano e fuggono da carestie, guerre, dittature o povertà estrema. Ma tutti trovano una barriera in Libia o in Tunisia, nei centri di detenzione nei quali vengono rinchiusi per un tempo indeterminato e nel quale subiscono ogni tipo di abuso.

Ma come avviene davvero un salvataggio in mare? Per mostrarcelo viene proiettato uno spezzone del film “Mare Amarum” di Philippe Fontana che mostra un gommone affondato e le operazioni svolte in situazioni simili, fino al trasporto dei superstiti sulla nave. Bertoldi spiega che a bordo di queste ultime l’equipaggio è preparato ad affrontare anche le situazioni più critiche, come in caso di mare mosso, che rende ulteriormente complicate le operazioni di salvataggio. E’ sulle navi che vengono svolte le prime operazioni di riconoscimento anche a livello legale, di primo soccorso (inclusa la possibilità di un supporto psicologico), viene fornito ai migranti il materiale necessario per il periodo di permanenza sulla nave e sono sistemati, in spazi sì angusti a causa dell’alto numero di persone a bordo, ma di certo più sicuri.

A quel punto inizia la rotta, non semplice, verso il primo porto sicuro.

Ci avviamo verso la fine del seminario e Bertoldi invita tutti a umanizzarsi un po’, ricordando che in Italia ci sono circa 6 milioni di stranieri, di cui solo un 10% è di colore, contrariamente alla percezione che ne abbiamo, causata anche dall’agenda setting dei principali mass media. Secondo Bertoldi, in questi casi, il rischio è la semplificazione della realtà, per questo il sociologo invita tutti a controbilanciare le notizie che ci arrivano da radio, TV, ecc, con i dati reali. “Abbiamo l’obbligo morale e deontologico di informarci e di coltivare e mantenere vivo l’aspetto emotivo e relazionale”, dice Bertoldi. Dopo essersi imbarcato a quasi 52 anni, il socio di SOS Mediterranee confessa che “Quando hai conosciuto la diversità hai più argomenti per controbattere la semplificazione degli stereotipi”.

Il Mar Mediterraneo è il più controllato al mondo, con satelliti e altri strumenti sofisticati. Eppure si continua a morire in mare. Secondo Bertoldi la colpa è da attribuire alla negligenza delle leggi in materia e al “girarsi dall’altra parte” tipico di chi non vuole vedere il problema che ha proprio sotto il naso.

Per cercare di far fronte all’indifferenza sempre più diffusa, nel 2018 due donne francesi, capitane di voli di linea in pensione, hanno fondato la ONG Pilotes Volontaires, decidendo di mettere a disposizione le loro conoscenze acquisite in anni di lavoro per sorvolare il mare dall’alto e intercettare per tempo eventuali situazioni di pericolo. Unica pecca, a Lampedusa e a Malta i velivoli destinati a tale scopo non hanno la licenza di partire.

“Le ONG esistono perché c’è un vuoto”, spiega Bertoldi. Ma se non viene loro data la possibilità di intervenire, cos’altro possiamo fare per non restare fermi a guardare?

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