Istruzioni per la convivenza

Michela Dalla Benetta

“Prigionieri dell’identità e artigiani delle somiglianze”. Recita così il titolo della conferenza che vede protagonista Francesco Remotti, professore emerito di
Antropologia Culturale dell’Università di Torino e socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino. Nella cornice di Palazzo del Governatore a Parma, si apre con la prospettiva dell’Antropologia il ciclo di conferenze dei “Seminari di Europa”, una serie di incontri in cui si cercherà di scavare nella profondità del significato della parola “tolleranza”.

Il curatore dell’iniziativa e professore di Storia romana dell’Università di Parma Alessandro Pagliara e la docente di Antropologia culturale dell’Università Martina Giuffrè presentano l’ospite del primo incontro. Alla presentazione intervengono inoltre il Magnifico Rettore Paolo Andrei, seguito da Marco Mezzadri , vicedirettore del Dipartimento delle discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali, da Fabrizio Storti , Pro Rettore con delega della Terza Missione, e da Roberto Valentino , vicedirettore del Centro Universitario per la Cooperazione Internazionale.
Progettare – «Ciò che importa non è sapere quale sia la vera religione, ma sapere come gli uomini possano vivere insieme»: M. de l’Hospital, politico della Francia del 1500, fece questa considerazione alla luce delle guerre di religione. Remotti per introdurre il suo discorso, sottolinea proprio le parole sapere e possano, definite come le condizioni di possibilità per la cultura della convivenza. Convivere è un progetto, avere una visione comune è un’arte che richiede dedizione e cura. Essa si distingue dalla coesistenza, in cui l’unico punto di condivisione è lo spazio: due soggetti coabitano ma ognuno cerca di preservare il proprio spazio, la propria identità.
Rinunciare – «Buttare l’identità», la sostanza, l’essenza che non può essere condivisa, ma che ci permette di non scivolare nel groviglio di differenze e somiglianze che ci circonda. Remotti cita Platone, che definì le somiglianze come “cose di cui diffidare”, sfuggendo da questo terreno scivoloso con le idee. Reclamare la propria sfera di sicurezza identitaria nei momenti di crisi, può far riflettere sulle risposte elaborate tra i gruppi sociali, in cui viene circoscritto un gruppo in base ad una caratteristica biologica, culturale o bioculturale. L’identitarismo diventa la risposta più immediata, capace di circoscrivere “noi” e “gli altri”.
Agire – « Bisogna mettersi dal punto di vista di chi è tollerato. » Pensando al dibattito attuale in tema di migrazione in Italia, si può capire come una politica
dell’identità può assumere una deriva negativa. Essa comincia quando all’identità si accosta anche un’assenza di tolleranza: si crea un rapporto asimmetrico tr a chi tollera e chi è tollerato, che può portare all’indifferenza tra i due, al disprezzo, al respingimento o, in estremo, all’annientamento. Pensando al razzismo e agli stermini di massa nella Storia si capisce come questa sia una prospettiva possibile. Da dove partire per cambiare le cose? Remotti propone un lavoro artigianale, attuare l’arte del convivere che inizia con la progressiva analisi delle somiglianze e la valorizzazione delle
differenze al fine di creare una compatibilità per poter costruire insieme proprio quel progetto di convivenza. Una politica della somiglianza, che parte dalle cose concrete: se c’è un problema reale, ci si mette in gioco e si creano le opportunità per risolverlo, senza farsi fermare dall’ideologia identitaria.
Provare – L’antropologo riporta l’esempio di due popolazioni africane, Lese e Efe, ognuna specializzata in diversi ambiti e tra di loro in conflitto. Esse però sono essenziali l’una all’altra, perché sono riuscite a creare un rapporto intimo, curandosi e ai utandosi a vicenda nella “purificazione” dei loro rapporti sociali quando vi è il “male”, il “kunda”. Con modalità diverse potrebbe essere possibile creare un rapporto di interdipendenza anche nella nostra società.
Esprimere – Magari è arrivato il momento di non ascoltare la “sirena identitaria”, definita così dal prof. Pagliara, per comprendere anche attraverso l’Antropologia che la tolleranza non è l’unica soluzione possibile, come mostrano i modelli culturali e sociali dei gruppi umani analizzati dall’Antropologia. Il Prof. Remotti suggerisce di iniziare ricorrendo anche all’umorismo, una delle possibili tecniche per mettere in atto la convivenza, perché dimostra l’esistenza di un una delle possibili tecniche per mettere in atto la convivenza, perché dimostra l’esistenza di un rapporto ed è un modo di sfogare tutte le differenze, invece di rapporto ed è un modo di sfogare tutte le differenze, invece di vederle come una minaccia capace di vederle come una minaccia capace di intaccare la nostra identità. Aprirebbe quel dialogo necessario alla convivenza e alla ricerca di un equilibrio.equilibrio.

(Incontro svoltosi martedì 8 ottobre 2019)

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Intervista:
«Il concetto di Europa ha origini antiche, l’idea di una comunità europea inizialmente fu attuata per interessi economici e per prevenire ulteriori guerre. L’unione Europea vive dei momenti di equilibrio e altri di difficoltà a seconda delle forze al potere in ogni stato. Possiamo parlare quindi di una fragilità europea data da queste identità che non riescono a convivere?»
«Certamente, in fondo potremmo confrontare l’Europa con Kutigi: è una Europa in piccolo però hanno saputo creare delle regole di convivenza piuttosto consistenti. L’Europa soffre di una politica di identità nazionali: non sto di cendo che l’Europa dovrebbe dar luogo ad una politica di identità europea, ma dovrebbe diventare un esempio di convivenza. La convivenza tra gli esseri umani è resa possibile dalla natura, l’Europa oggi dovrebbe, in maniera più consapevole e programmatica, farsi portavoce di questa esigenza di convivere con la natura, che significa cambiare completamente
le nostre economie. Potrebbe, nei confronti delle altre potenze come gli Stati Uniti e la Cina, farsi carico di questa politica di convivenza nei confront i della natura. Perché bisogna ragionare a livello mondiale. Vedrei bene l’Europa prendere questa via, invece constatiamo che trovano persino difficile mettersi d’accordo se i migranti debbano sbarcare a Malta o a Lampedusa.
È una ristrettezza di orizz onti incredibile, che vuol dire anche mancanza di umanità. Somiglianza vuol dire anche condividere un senso di umanità con i nostri simili, se li chiami “altri” sono “altri”.»
«Ha parlato appunto di come la politica utilizza termini come integrazione, tol
leranza, convivenza in maniera errata, attraverso anche i social media. Vi è un cattivo uso di questi termini e non viene analizzato il vero significato delle radici di queste parole. Una maggiore sensibilizzazione può passare attraverso l’educazione scola stica o si può lavorare si può lavorare in altri ambiti? In quali si potrebbe cambiare concretamente?»

«La Scuola certamente. In Italia avevamo degli esempi, penso a Riace, un esempio importante di un contesto locale che aveva saputo concretizzare la convivenza. Emerge il tema del lavoro, quello artigianale, dei contadini. Pensiamo allo spopolamento delle montagne, dei territori, dell’Appennino: se invitassi i miei amici africani verrebbero di corsa, sarebbe un vantaggio per tutti. Piuttosto che avere della gente a cui hai negato tutto, li sbatti per strada… io diventerei delinquente
non nel giro di 24 ore ma in 12 ore. Sono queste opportunità sul piano del lavoro, a partire da quelli più umili. Per esempio, a Torino, ogni tanto trovo degli africani c he mettono un barattolo sul marciapiede e nel frattempo tolgono le erbacce. Loro stanno a dire che, dato che non gli viene offerto altro, fanno quel che possono e non si sentono sminuiti. Bisognerebbe pensare a delle opportunità da offrire a livello nazionale, reg ionale, locale. La borgata si è spopolata, basterebbe ripopolarla con qualche persona che sa qualcosa di campi, di capre. Sono soluzioni alla portata di mano ma la nostra ideologia identitaria ci impedisce di agire.

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